SIAMO ALLA TERZA TAPPA, L’ELEMOSINA
 Se non rischiamo nulla di nostro non apparteniamo a Gesù Cristo

   
 « La vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza» ( 2 Cor 8,14). Il richiamo all’attenzione costante per i più bisognosi caratterizzava le prime comunità cristiane e sin dalle origini la Chiesa ha posto l’elemosina al centro della sua vita perché non c’è Eucaristia senza carità. Giovanni Battista, prima ancora di Cristo, invitava gli uomini a fare frutti degni di conversione: «Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto» ( Lc
 3,11). E mai come oggi, in tempo di crisi in cui anche chi è abituato a vivere nell’abbondanza teme di provare l’indigenza, c’è bisogno di richiamare tutti a un supplemento di carità. Se non ci possiamo permettere più di avere due tuniche, dobbiamo imparare a dividere il poco con chi non ha nulla. Se siamo abituati a donare il superfluo senza rischiare le nostre finanze, allora è davvero tempo di invertire la rotta per dichiarare la nostra appartenenza a Cristo. Se riduciamo l’elemosina allo slancio generoso di un momento di commozione o a un gesto abituale della domenica, siamo ancora lontani dalla via del Signore. Carità è compassione, solidarietà, accoglienza, anche se questo significa dividere il lavoro che non c’è con chi arriva da altri lidi in cerca di futuro, come noi, quando nel tempo del nostro bisogno partivamo per terre lontane. In questa società, in cui ci hanno illuso con il mito dell’eterna giovinezza, siamo invecchiati dentro perché non abbiamo più nulla da sognare. Carità, invece, è dare ragione della speranza che è in noi, è vivere la giovinezza del cuore. Abbiamo trasformato la vecchiaia da età della saggezza in età della solitudine, dell’emarginazione, perché chi non produce e non consuma diventa egli stesso un prodotto fuori moda che rientra nella logica perversa dell’usa e getta. E ora che la crisi dei mercati frena i nostri consumi ci sentiamo anche noi improvvisamente invecchiati, soli, perché intenti ad accumulare tesori sulla terra, non ci siamo accorti che l’opportunismo ha preso il posto dell’amicizia sincera, il conto in banca ha prevalso sulla giustizia.
  C’è differenza tra il fare la carità e l’essere nella carità, perché se anche distribuissimo tutte le nostre sostanze ma non avessimo la carità, nulla ci gioverebbe. Se non siamo in grado di donare con gioia, di sentirci arricchiti, beati, ogni volta che siamo operatori di pace, quando lottiamo per sciogliere catene inique, per liberare gli oppressi da pesi che noi non tocchiamo neppure con un dito, allora vuol dire che non siamo ancora nella carità. Stiamo ancora pensando a noi stessi e il superfluo che diamo in elemosina, senza intaccare le nostre sostanze, serve più a metterci a posto la coscienza, ad ingraziarci il Padreterno affinché ci benedica, che ad entrare nell’ottica cristiana. Non si possono servire due padroni e se la crisi economica ci spaventa tanto, se siamo ossessionati da cosa mangeremo e da come vestiremo, se abbiamo paura di dividere il pane con l’affamato perché temiamo di rimanere al verde, non siamo ancora alla sequela di Cristo. Abbiamo creduto di poter avere tutto sotto controllo e, incuranti di quanti continuavano a pagare il prezzo del nostro benessere, ci siamo illusi di poter guadagnare sempre di più ed ora, nel buio della crisi economica, ci sentiamo persi, incapaci di rinunciare alle tante cose inutili con cui per troppo tempo abbiamo riempito il vuoto di una vita senza senso. Impariamo a fidarci del Padre che nutre i passeri del cielo e veste i gigli dei campi, proviamo a relativizzare i beni materiali, a guardare oltre per ritrovare in noi stessi, negli affetti che riempiono la nostra vita, nella fratellanza con chi è diverso da noi, la vera ricchezza, quella che nessun crollo dei mercati potrà mai distruggere. Viviamo una Quaresima di carità: la luce sorgerà come l’aurora sulle tenebre di una economia spregiudicata che sta globalizzando la povertà. D’altronde, «che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde o rovina se stesso?» ( Lc 9,25). 

Gennaro Matino

Fonte: Avvenire 15-3-2009